martedì 26 aprile 2011

Chi era il primo Re d'Italia, Vittorio Emanuele II



Le celebrazioni dei 150 anni d’Italia


Chi era Vittorio Emanuele II, il Re Galantuomo che unì la Patria


Necessaria la precisazione, ora che anche la repubblica lo ha onorato, che il primo capo di stato
fu sovrano costituzionale e moderno – Ottima impressione dalla casa reale inglese -
 
Abbiamo assistito, un po’ ovunque in Italia, alle feste celebrative del 150° anniversario dell’Unità nazionale; alle manifestazioni di piazza, è stato festeggiato il Presidente della Repubblica (ora in carica è Giorgio Napoletano), il quale come da carta costituzionale, è il simbolo della coesione nazionale. Le folle agitanti il tricolore, ébbero l’istinto più che la consapevolezza razionale: l’Unità della Patria è normale e bello debba essere festeggiata nelle ricorrenze: ma non è colpa della gente se essa non fu del tutto consapevole –per una disinformazione artatamente costrùtta- che l’anniversario è della proclamazione del Regno d’Italia, e quindi della scaturigine monarchica del nostro stato: l’Unità nazionale si compì sotto l’egida, sotto il sigillo della "bianca croce di Savoja" (per usare il verso di Carducci), non certo per meriti di presunti repubblicani postumi. Che ciò sia non solo storicamente innegabile ma anche acquisito, lo si vide il giorno delle commemorazioni allorché il Presidente Napolitano (ed i cronisti quasi meravigliati a riportare la scena), alla presenza della famiglia Reale di Casa Savoia con in testa il Principe di Napoli Vittorio Emanuele, ha reso omaggio al Pantheon alla tomba del primo Re d’Italia, Vittorio Emanuele II; in precedenza, al Vittoriano sempre il Presidente deponeva una corona d’alloro ai piedi del monumento equestre al gran Re, vero ed autentico "pater Patrie". La cosa si chiudeva quasi alla spicciolata lì, per la retorica dei comunicati: invece, è stato un gesto fondamentale: la sessantacinquenne repubblica (da noi da queste colonne già definita luètica per le tabe della sua nascita, attraverso il referendum truffa) che rende il doveroso, dovuto ed obbligatorio omaggio alla ottantacinquenne monarchia italiana (casa Savoia), per giunta fautrice di quella Unità nazionale che abbiamo, ognuno a proprio modo, festeggiato. E le manifestazioni, anche queste belle, verso la figura del Presidente, hanno del surrogato e vengono dal sentimento più che dalla ragione: è al simbolo che si inneggia, ed il simbolo dell’Italia unita non può essere una persona, per quanto dabbene, che va e viene ogni sette anni. Il simbolo è un Re. E quel Re, è stato onorato nel sacrario del Pantheon. Finalmente.
Necessita quindi in questa sede, una veloce immagine quasi fotografica, in ‘effetto seppia’, ci sia consentita l’allegorìa, del sovrano che costituzionalmente vòlle fermamente e realizzò l’Unità italiana, ovvero Re Vittorio Emanuele II. La storia lo definisce, ed era anche la sua preferita descrizione, "il primo soldato dell’indipendenza italiana": poiché animo di soldato ebbe, soldato si sentì sempre, soldato fu nella vita politica, nella vita privata, nello stile. Assunse il potere ventinovenne nelle infauste giornate della prima guerra d’indipendenza, e dovette negoziare col celebre Radezski l’armistizio detto di Salasco (1849): e tuttavia, adeguandosi e condividendo le aspirazioni del padre Carlo Alberto il quale concedeva un anno circa prima, al Regno di Sardegna la carta costituzionale detta anche Statuto Albertino, mantenne l’ordinamento e non volle, come chiedevano gli austriaci e tutte le case regnanti italiane, dai Borbone (che passano alla storia per aver giurato e spergiurato tante volte sulle costituzioni, quindi sull’anelito di libertà dei popoli: perciò sono esecrati dai contemporanei e mal ricordati, nonostante un certo neoborbonismo, dai posteri) al Papa, avevano fatto, revocare lo Statuto, quindi la garanzia che la monarchia doveva essere moderna, subordinata cioè al Parlamento: questo aspetto sarebbe stato necessario illuminare nettamente –e non poteva farlo l’attuale politica repubblicana, per paura di scoprire le proprie deficienze-, in particolare ai giovani d’oggi. Che l’Italia unita dalla monarchia di Savoia nasce costituzionale, con un Re che sceglie di mettere la sua figura millenaria tre passi indietro alla volontà delle masse, ovvero al Parlamento. E il ‘dominus’ di quel Parlamento, il quale doveva sanzionare a palazzo Carignano di Torino la nascita del Regno d’Italia, era un gentil’uomo di nome Camillo Benso di Cavour.
Vittorio Emanuele era donnaiolo, spendaccione, simpatico, non parlava bene, anzi in modo pessimo, l’italiano preferendogli il francese sua lingua madre: e dovè barcamenarsi con Napoleone III nei giorni della seconda guerra d’Indipendenza, allorché l’Imperatore consentiva, o non impediva, l’unificazione degli stati del Regno delle due Sicilie, mercé l’opera indispensabile del "guerrigliero" Garibaldi, segretamente sostenuto e foraggiato da Re Vittorio, molto meno dal Cavour. Ma venivagli facile codesto abboccamento col sovrano francese: entrambi avevano la medesima amante, la quale era la cugina del Bonaparte e moglie del più fidato consigliere del Re, Urbano Rattazzi. Re Vittorio nel suo carattere irruente, si guadagnò le simpatie di quelle potenze, Gran Bretagna e Francia, che ebbero parte fondamentale nel nostro processo unitario. Lo descrive in termini precisi, conferendogli l’Ordine della Giarrettiera, nel 1855 la Regina Vittoria: "E’ così franco, aperto, giusto, leale liberale e tollerante, e con tanto buon senso. Non manca mai di parola e si può sempre contare su di lui. Ma è selvaggio e stravagante: ama le avventure ed i pericoli, ed ha un fare strano, conciso, rozzo, una esagerazione di quel modo brusco di parlare…. Più che una figura dei giorni nostri, egli è davvero un cavaliere del medioevo". Si notino i due passaggi essenziali della prosa vittoriana, che tanto pesarono sulla politica italo-inglese dei decenni successivi: sul Re, e quindi sulla Casa Savoia, si può sempre contare poiché sono di parola: e Vittorio è una figura da epica romanzesca. Su tale uomo certo assolutamente necessario alla Patria nella metà del secolo XIX, imperniavasi l’Unità italiana. Senza alcun dubbio, egli ebbe le sue debolezze: la più grave, ma comprensibile, fu l’invidia vasta per il personaggio più popolare d’Italia, Garibaldi: non solo lo fece impallinare in Aspromonte per non creare problemi a Napoleone III, considerato che anche su impulso suo (gli ordini alla squadra navale militare di Catania di imbarcare i ribelli garibaldini e portarli in Calabria, furono dati dalla Casa Reale e col concorso della onnipresente Frammassoneria, in quelle giornate del 1862) l’Eroe era ridisceso in Sicilia per marciare ex novo verso Roma; ma anche due anni dopo, quando il Generale era in visita più che trionfale a Londra, impedì al nostro ambasciatore di partecipare alle autentiche ovazioni che tutti, dai Windsor al popolino, tributavano al liberatore della Patria (ed allora Gran Maestro della Massoneria nazionale).
Ma Vittorio Emanuele, pur non accettando le ribellioni del novello Regno italico (dopo la rivolta palermitana del 1866 non esitò ad appoggiare il pugno di ferro della repressione), ebbe sempre il buon senso, pur tentando spesso di scavalcare –ed a norma di Statuto poteva, ma de facto non accadde mai e laddove intervenne con dei politici fantocci, dimostrò il danno che due quadri di comando, casa reale e capo del governo, possono addurre- il Parlamento, di attenersi a quel dettame secondo cui egli il 17 marzo 1861 fu acclamato Re d’Italia: "per grazia di Dio e volontà della Nazione": una formula che all’epoca faceva inorridire le altre case regnanti d’Europa, poiché il Re tale deve essere, si pensava allora, per diritto divino e non, socialisticamente (termine che usiamo non a caso), installato in trono dal popolo. Invece Casa Savoia sin dal 1861 unificava l’Italia in modo che oggi si direbbe ‘democratico’ (le virgolette son dovute), ma senza alcun dubbio assolutamente moderno per i parametri dell’epoca: in stile british, come del resto era nei voti.
Il primo Re capì subito chi erano gli italiani, questo germinato amalgama di popoli parlanti lingue diverse e con diversissime storie: "ci sono due soli modi di governare gli italiani: con le baionette o la corruzione; non capiscono cosa sia un regime costituzionale e sono del tutto inadatti ad esso": queste parole egli le disse all’ambasciatore inglese Paget nei giorni (1867) di Mentana riferendosi agli uomini politici del tempo, ma appaiono illuminanti per l’oggi, e per comprendere la mentalità dell’uomo. Ma del fatto che la Monarchia era nata con la stella, anzi il pentalfa (inciso nelle monete del tempo) della modernità, érane ben conscio: anche il suo successore, Umberto I, lo affermò subito dopo l’assunzione al trono: "La monarchia in Italia o sarà democratica o non sarà".
Vittorio Emanuele II moriva nel gennaio 1878, a 57 anni per uno dei suoi frequenti attacchi di malaria: pochi giorni dopo lo seguiva nella tomba l’arcinemico Pio IX confinato in Vaticano. Fu universalmente compianto: aveva scelto per la Nazione che ebbe dalla Divinità la sorte di reggere, la via della modernità e del progresso, nel solco della carta costituzionale la quale significa libertà del popolo: l’attuale costituzione repubblicana del 1948, altro non è che figlia di quella storia. Tale è l’autentico percorso dell’Italia unita. Con le parole di Giuseppe Garibaldi: "L’Italia una ed il Re Galantuomo siano i simboli perenni della nostra rigenerazione e della grandezza e prosperità della Patria". Onoriamo la repubblica ma amiamo la Patria, che nel suo sentimento è e rimarrà monarchica.
Barone di Sealand
 
 
(Publicato su Sicilia Sera n° 338 del 24 aprile 2011)

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