sabato 24 maggio 2014

La 'Grande Guerra' iniziava 99 anni fa: fu il conflitto che, nel sangue, unificò l'Italia







    La 'Grande Guerra' iniziava 99 anni fa: fu il conflitto che, nel sangue, unificò l'Italia 

"Soldati, a voi la gloria di piantare il tricolore sui termini sacri che la natura pose a confine della Patria nostra, a voi la gloria di compiere, finalmente, l'opera con tanto eroismo iniziata dai nostri padri". Con queste parole, il 26 maggio del 1915 dal Quartiere Generale, Sua Maestà il Re Vittorio Emanuele III, concludeva il proclama alle truppe che apriva per l'Italia le ostilità in quello che fu il più sanguinoso conflitto del XX secolo, la prima guerra mondiale. Sono passati 99 anni dalla dichiarazione celebre del 24 maggio, giorno della Madonna Ausiliatrice: e ancora, per noi, l'eco di quella pugna gloriosa e densa di sangue, è fondamentale. E lo è anche e soprattutto per chi dimentica o ignora.
Perchè se oggi l'Europa si trova nelle condizioni politiche ed economiche attuali, molte conseguenze derivano da quella guerra ben più importante e densa di sangue della seconda, che della prima fu il corollario inevitabile. Inoltre non bisogna dimenticare che sulla Grande Guerra, si creò una epopea indistruttibile, che è vissuta anche oltre le vite fisiche dei combattenti, oramai in Italia tutti morti per vecchiaia, quelli che tornarono: ma coloro che non poterono più veder casa, i morti, furono ben di più: 680 mila, e migliaia e migliaia di mutilati, di reduci infermi.
La Sicilia, che doveva poi accendersi come era accaduto nel XIX secolo molte volte, della fiamma indipendentista, in quel periodo era perfettamente integrata alla Patria italiana,  pur se aveva avuto la repressione crispina nel 1895 con il Commissario Codronchi, a cui il socialista De Felice osò presentare, forse ingenuamente, una bozza di Autonomia amministrativa. Non se ne fece nulla, anzi le popolazioni vennero punite per aver chiesto miglioramenti sociali (lo Statuto autonomistico federale doveva poi concederlo l'ultimo sovrano Umberto II, il 15 maggio 1946).  Ma nel primo decennio del 900, un nuovo e giovane Re, Vittorio Emanuele, tendeva a fare dimenticare la mano pesante di Umberto I: dal governo Zanardelli alle iniziative del miglior ministro degli Esteri del tempo, il catanese Antonino di San Giuliano, la politica della monarchia di Savoia era ben più vicina alle popolazioni in Italia di quanto non lo fosse stata nei decenni precedenti. Merito della attenta opera di saldatura psicologica e sociale della Casa regnante, opera a cui la Regina Elena del Montenegro diede fondamentale supporto: la ricordiamo fervente nel soccorrere i messinesi nel disastro del terremoto del 1908: per queste ragioni la città dello Stretto le ha giustamente dedicato un monumento.
Vittorio Emanuele,  attento alle vicissitudini storiche, valorizzava il patrimonio artistico  e sociale del sud: lo si ricorda a Catania in visita al disvelato Anfiteatro romano, e sempre nella medesima città, inaugurante l'Ospizio dei Ciechi nel 1911: del resto, Dama di palazzo della Regina era la marchesaGiulia  Romeo delle Torrazze, di nobilissima famiglia etnea: il marito Giovanni, aiutante di campo e amico personale del Re Vittorio (la famiglia Romeo ospitò la coppia reale a Randazzo, e i Sovrani fecero il giro dell'Etna in Circumetnea), fu presente al convegno di Peschiera e tra i pochissimi salutò i Sovrani al molo di Napoli involati per il triste esilio (ora la loro villa al centro di Catania, già ritrovo dei monarchici, è in vendita... sic transit gloria mundi!); così la Principessa Rosso di Cerami, vissuta fino agli anni Cinquanta.   La nobiltà di quel Re si vide appunto nel maggio del 1915: abbandonata la vita del Quirinale, volle farsi fante tra i fanti, girò per le trincee per tre anni, con la sua presenza galvanizzò le truppe, e saperlo al fronte era di conforto e di sostegno per i soldati come per gli ufficiali. Egli guidò l'impresa contro la soverchiante potenza austriaca che aveva rotto il fronte a Caporetto nel celebre convegno di Peschiera, ove impose col valore del soldato italiano la formula della resistenza a oltranza sulla fronte del Piave. E così fu, sino alla vittoria.
Perchè oggi rammentare quel conflitto? Perchè fu, storicamente come sociologicamente, come psicologicamente, l'unica occasione in cui i diversi, e sovente contrapposti, popoli componenti l'Italia , si trovarono uniti: e accadde che gente la quale neppure si capiva per linguaggio, vestisse il grigioverde panno, e si sentisse da questo affratellata. L'opera era di cemento sociale tra i fanti, e tra gli ufficiali e sottufficiali: e se tra i gradi medio alti  ferveva la propaganda della fratellanza massonica, per i soldati erano le madrine e le pie opere a fungere da "collante fraterno", senza dimenticare l'apporto della Chiesa. Tutto ciò mentre garriva il glorioso tricolore con la bianca croce, la croce di Savoja. Non succederà più. La seconda guerra mondiale dividerà, la sovvenuta Repubblica, nata luetica per il falso risultato del referendum del 1946, sarà sin dalla nascita rissòsa e irascibile. Quel miracolo laico, che vide un Re piemontese (anche se nato a Napoli) e un siciliano, il palermitano Vittorio Emanuele Orlando, alla guida del governo "della Vittoria", nel novembre 1918, non si potrà ripetere. E dubitiamo fortemente che, con la pochezza attuale, possa aversene oggi anche una pallida eco. Quindi se non altro, rammentare "ciò che unisce e non ciò che divide", per usare le parole dell'oggi Santo Giovanni XXIII (in quegli anni in servizio in Sanità), è confortante.
Anche perchè la Sicilia diede alla Grande Guerra un ingentissimo contributo: oltre 50 mila morti,  9331 decorazioni, di cui venticinque medaglie d'oro. E molti eroi, mai termine fu più adeguato, si immolarono per la comune causa, di ceppo siciliano: se l'ammiraglio Luigi Rizzo, l'Affondatore della Santo Stefano, tornò e visse a lungo, egli con D'Annunzio e Ciano autore della beffa di Buccari, moriva sul campo dell'onore il generale di Piazza Armerina Antonino Cascino, amatissimo dalle sue truppe (comandava la brigata Avellino e la divisione 8°, composte da siciliani) sul monte Santo conquistato, nel settembre 1917: "io voglio che voi cantiate l'Inno di Mameli e siate una grande valanga grigioverde, che miracolosamente sale per schiacciare il nemico che vi si annida". Queste parole egli usava per galvanizzare i soldati, e solo un siciliano poteva esprimerle con vigore massimo. Moriva per le conseguenze di una granata austriaca, mentre era stato il primo generale d'Italia ad entrare in Gorizia liberata, nel 1916.
I tanti che silenti morivano, e di cui non si poterono recuperare tracce, furono gli ignoti. Il Soldato Ignoto è Storia, per questa realtà il 4 novembre del 1921 si eresse il monumento a Roma scegliendo una delle innumerevoli salme che non si poterono identificare.  Una nota canzone di quel tempo recitava: "Soldato Ignoto, tu sei l'eroe che non morrà mai più: e solo la tua salma, rivolta ad Oriente, da Roma può rispondere: Presente!"   Si provi a entrare in un qualunque cimitero: c'è sempre il sacrario del Soldato Ignoto: e se per noi soffermarsi innanzi a quella fiamma provoca commozione per coloro che non tornarono e non ebbero il pianto dell'urna, allora come dipoi, ciò dovrebbe essere trasmesso alle generazioni successive, che non serbano le memorie degli avi, come è sempre accaduto, nei popoli antichi e fra i moderni.  La fiammante prosa poetica di Carlo Delcroix, che unì i reduci ed i mutilati, egli monco e cieco, in un abbraccio d'amore verso l'Altissimo, per decenni, è dimenticata. La "medaglia coniata nel bronzo nemico", che ogni combattente portò con orgoglio, oggi è venduta nei mercatini di vecchie cose: e i nostri nonni piangevano nell'accarezzarla, mentre ricordavano gli assalti alla bajonetta sul Carso e sull'Isonzo, al suono della "Leggenda del Piave" (scritta da un uomo del sud, il napoletano E.A.Mario).
Quella guerra e quella strage di eroi, che l'Italia solo allora, una e indivisa, per compiere l'agognata Unità, vinse indiscutibilmente, fu tecnicamente opera di Cadorna e Diaz, ma nella sostanza guidata da un uomo, da un Re: Vittorio Emanuele III. Così Gabriele D'Annunzio, nella terza delle Preghiere dell'Avvento", lo celebra: "Salva il Re, che dimesso l'ermellino \ e la porpora, come il fantaccino \ renduto in panni bigi, \ sfanga nel fosso e va calzato d'uosa \ cercando nella cruda alpe nevosa \ Dio vero, i tuoi prodigi ... Proteggi il Re della semplice vita \ chinato verso ogni bella ferita, \ che è rosa del suo regno, \ chinato verso il sorriso dei morti, \ che è l'alba del suo regno".
Quello stesso Re costretto, e celato dal titolo di Conte di Pollenzo, a triste esilio nel maggio del 1946 dalla spietatezza criminale di parti del CLN: e la cui spoglia mortale riposa ad Alessandria d'Egitto, mentre dovrebbe essere al Pantheon; stessa sorte per  l'ultimo sovrano, Umberto II.  La Repubblica ha ancora paura dei morti che guidarono l'Italia! Attendiamo il giorno del ritorno del Re, di quel grande piccolo Re, che unico e solo, vide la gloria dei tre colori con la bianca croce, nella miracolosa fiamma della Unità nazionale, oggi serbata de jure, ma concretamente perduto sogno.
                                                                                                                Francesco Giordano

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