lunedì 7 febbraio 2011

Mario Monicelli, un Maestro di Libertà


Il grande regista suicida a 95 anni


Mario Monicelli, un Maestro di Libertà


Dai suoi films abbiamo colto aspetti indelebili dell’animo degli italiani, e l’ultimo suo gesto è stato un insegnamento – Visione tragicomica della vita -


E’ stato uno dei grandissimi esponenti di quel filone che i critici cinematografici, con un certo decoro, hanno definito della commedia all’italiana: un Maestro, ora che se ne è andato, lo si può scrivere senza problemi, anche se –dato il suo carattere schivo, sdegnoso di complimenti ed elogi- egli avrebbe rifiutato l’appellativo, poiché sapeva ciò che era: Mario Monicelli. Ha deciso di spegnere la sua vita volontariamente, a 95 anni suonati, il 29 novembre u.s., a causa di un tumore alla prostata in fase terminale, che lo costringeva da qualche tempo al reparto di Urologia dell’ospedale San Giovanni di Roma, città ove trascorse la più gran parte della vita (pur essendo di origini toscane). Si è gettato dal quinto piano del nosocomio, verso le 21, solo nella sua stanza: un gesto di grande coraggio e lucidità, di estremo raziocinio; hanno scritto che è stato un atto di disperazione, il quale sessanta anni dopo ha emulato il suicidio del padre (Tommaso, giornalista e editore, così moriva nel 1946, per essere stato emarginato sia dal fascismo che dal mascherato antifascismo), ma la morte di Monicelli, come tutti i suoi films, per chi come noi ama senza confini tutto il cinema e, naturalmente, quello italiano, è stato l’ultimo suo insegnamento, a chi sa comprendere. Oltreché un atto di estrema coerenza.
Se si rivedono e rileggono le ultime, frequenti sue interviste, ripeteva spesso di non volere accettare mai una vita che sia indegna di essere vissuta; ebbe vicende personali movimentate, come del resto in Italia negli ultimi anni molti, ma decise negli recenti temoi (lo ricordiamo a La7 per i suoi novant’anni) di vivere da solo, anche se per pudore spiegò solo dopo, per iscritto a MicroMega, nel maggio scorso, il perché: "Per quanto in Italia le cose vadano male, tutti hanno un paracadute sul quale contare. Il più grande, il più pervasivo, il peggiore di tutti è la famiglia. La famiglia è ormai diventata la tana in cui ci si rifugia scappando da un mondo di egoismi e sopraffazioni. Ma è una tana che serve ad alimentare ancora di più questa reciproca ostilità, perché ormai tutti si fidano solo dei quattro o cinque familiari che hanno intorno. Tutto deve essere sacrificato alla famiglia: qualsiasi cosa, qualsiasi malefatta può essere giustificata se serve a proteggerla o a farla prosperare. Sono diventate dei piccoli rifugi di bestie feroci nelle quali nessuno può entrare. Da collante sociale si sono trasformate in elemento fondamentale di divisione e reciproca ostilità": Da questo coacervo di sentimenti più negativi che positivi, soffocanti, il vecchio profeta si era estraniato, "per vivere più a lungo", affermava: fu vero, considerati i risultati cronologici. E le parole del Presidente della Repubblica Napolitano, per cui bisogna rispettare l’estrema decisione del suicidio, hanno spazzato via, anche se in parte, ogni conato di rinascente polemica, poiché numerose voci riconducibili al Vaticano, hanno avuto l’ardire di affermare che Monicelli non fu un propagandista dell’eutanasìa. Forse questo è vero, egli non scese nelle piazze col cartello a manifestare a pro della pietosa morte: ma lo fu coll’esempio suo, paragonabile, pur nelle diverse epoche e distanze storiche delle persone e dei risultati, a Petronio ed a Seneca, entrambi periti per propria mano, pur di non soggiacere ad una tirannide. Allora era l’autocrazìa del princeps, ma anche il tedium vitae: oggi nessuno, crediamo, si sopprimerebbe per non vivere nel ‘regime’ di Berlusconi, ma per non essere schiacciato dalla sofferenza della malattia, sì.
Monicelli, dòtto in Lettere e Filosofia, fu un Maestro non solo perché, iniziato il suo percorso di creativo come assistente e sceneggiatore prima della seconda guerra mondiale (sua è la collaborazione a "Squadrone bianco" di Genina, già considerato un film di propaganda, oggi tra le migliori pellicole del genere coloniale, del 1937), passa da solo e con Steno, alla farsa commediografata di Totò, le cui doti egli ha più volte precisato vennero scoperte dopo la morte, e da "Totò cerca casa" a "Guardie e ladri" (con Fabrizi, per la cui interpretazione il Principe De Curtis meritò il Nastro d’Argento a Cannes) , a "Totò e Carolina", che ebbe i noti problemi con la censura rigida della DC dell’epoca, nel 1953, sino a "Risate di gioia" del 1960, con Anna Magnani (la quale, ricorda Monicelli, non voleva più girare con Totò perché, già in America, temeva di screditarsi con l’ex compagno di rivista, dalla critica accademica considerato un guitto…) ed un giovane Ben Gazzarra, di cui il Maestro valorizzò l’aspetto tragico, film del resto da rivalutare tratto altresì da due racconti di Moravia; nel frammezzo, Monicelli, aveva dato la sua grande e a parer nostro, insuperabile prova di regìa con "La grande guerra", del 1959, un ritratto impietoso ed estremamente veritiero dell’immane ed enormemente sanguinoso conflitto, di cui la retorica fascista aveva esaltato gli eroismi, dimenticandone, ed è ciò che Monicelli mette in rilievo con le insuperabili interpretazioni di Sordi e Gassmann, gli aspetti estremamente umani, nella loro miseria ma alfine nel loro grande orgoglio di essere italiani.
Tra i suoi meriti, quello di aver svelato il tratto comico di Monica Vitti, ne "La ragazza con la pistola", del 1966, causa del rinfocolato polemismo con Michelangelo Antonioni (eppure erano simili, i due maestri: intellettuale e cervellotico l’ex vincitore del GUF Antonioni, già estremista filonazista poi comunista, come era inevitabile; succedaneo dei tanti sottufficiali che evitarono il fronte e gettarono la divisa dopo l’otto settembre, Monicelli, però avente nei geni l’antifascismo ereditato dal padre, ed il ribellismo anarchico del carattere; entrambi a lungo vissuti, Antonioni 91 anni, anche se colpito prima da paralisi), nonché di aver prodotto, in presa diretta quasi –altro merito che la critica dei giorni scorsi, forse artatamente, si è ben guardata dallo scrivere- un film commedia sull’appena avvenuto, ed abortito, ‘golpe Borghese’, con la perfetta interpretazione di Ugo Tognazzi: "Vogliamo i colonnelli", è del 1973. Gli altri films di Monicelli, da "Romanzo popolare" a "I soliti ignoti" a "Parenti serpenti" (a cui si può accostare, nel 1953, "Totò e le donne", sempre suo, ove si coglie evidente la vis incisiva e corrosiva del rapporto col sesso femminile del baffuto regista, il quale sino alla fine ebbe la dolcezza di essere accanto alle donne, e figliolanza dall’una e dall’altra, ma sempre nella sua solitaria coerenza), sono a nostro parere meno rappresentativi, dei citati, dell’opera cinematografica monicelliana: la quale raggiunge il culmine, a pari merito coi precedenti, non già con i due "Amici miei", pur similari al carattere privato del Maestro e davvero espressivi di un certo modo di vedere la vita, tra uomini, ma con "Il Marchese del Grillo", ove il volto dell’eterno carattere dei romani è svelato nella sua densa, a volte ipocrita, interezza (solo Sordi poteva avere quel ruolo, il quale in verità fu scritto da altro, e grandissimo, romano, Aldo Fabrizi), e, in pieno periodo di pistolettate estreme, "Un borghese piccolo piccolo" del 1977, dal romanzo di Cerami, laddove la verità delle debolezze, persino dei minimi sogni di moltissimi italiani si svelano nel personaggio interpretato sempre da Sordi, il quale fa piangere davvero sia di commozione che di crudeltà spietata, nel far di tutto prima per procurare un posto statale al figlio, poi nel torturare senza freni il suo assassino. Basterebbe quel film a fare di Monicelli un eccelso dipintore della realtà, come fu per Pontecorvo nella "Battaglia di Algeri": per fortuna, diversi quadri ed indimenticabili egli ci ha lasciato.
Abbiamo letto del suo essere anticlericale, e pertanto delle critiche che, poveretto, anche post mortem per il gesto suo ha dovuto subire: per fortuna la famiglia ha rispettato le estreme volontà, nessun funerale in chiesa e cremazione: e se il parroco del quartiere romano dove viveva ha comunque al passaggio del feretro, suonato la campana, è –cinematograficamente, ma non troppo- una non originale ripetizione della scena di Don Camillo, che suona le campane per il giovane comunista che passa davanti la chiesa, in "Don Camillo Monsignore ma non troppo". Mario Monicelli non era ateo, ma anticlericale sì, lo fu sempre: "Prima dell’avvento del cristianesimo avevamo società politeiste in cui ognuno si sceglieva con una certa libertà gli dei da pregare e ai quali votarsi. Intendiamoci: nessuna nostalgia verso società fondate sullo schiavismo e sulla sopraffazione dei più deboli. Tuttavia del mondo antico mi ha sempre affascinato il rapporto a mio avviso più equilibrato con la religione. Senza questa ossessione verso l’aldilà, il peccato, la dannazione eterna eccetera, che ci è piovuta addosso con il cristianesimo. Io considero l’avvento del monoteismo, e del cristianesimo in particolare, come una sciagura per l’umanità. L’ebraismo era sì una religione monoteista, ma era rappresentato da una piccola setta che non rompeva i coglioni a nessuno. È stato san Paolo, il cristianesimo, a seccare il mondo intero. L’ho sempre pensata in questo modo, anche se nelle nostre commedie del dopoguerra la satira di carattere anticlericale e antireligioso non ci era consentita. Per questo nei nostri film sono molto scarsi i riferimenti alla religione. Oggi le cose sono cambiate e non sarebbe più un problema ironizzare in maniera anche molto pesante sulla Chiesa, i papi, i Padre Pio e compagnia bella. Ma, insomma… ormai non ne vale nemmeno più la pena. Sarebbe come sparare sulla Croce Rossa! Quello è un mondo in disfacimento". Difficile, anche da credenti nel messaggio del Messìa, potergli dare torto, se si analizza la storia, anche con le lenti critiche del Cristiano (Alfred Loisy, difficilmente avrebbe contestato Monicelli…). Nell’intervista video a La7 del 2005, Monicelli svelava che per scrivere le parti della affiliazione massonica del "Borghese…", egli stesso si era fatto iniziare alla fraternità della Massoneria. La quale notoriamente, tranne alcune frange, non è atea, ma ammette un Dio trascendente quale intelletto regolatore. Ecco, Mario Monicelli non era ateo, come hanno impropriamente scritto. Era Massone. Un Fratello. E da Massone, ha condotto e concluso la vita sua. Nella Libertà.


Barone di Sealand


(Pubblicato su Sicilia Sera n° 336 del 6 febbraio 2011)

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