lunedì 2 agosto 2010

Carlo Delcroix, eroe d'Italia e aedo del dolore


Un soldato ed eroe oggi dimenticato


Carlo Delcroix, aedo del Dolore


Gloriosamente mutilato nella Grande Guerra, seppe ascendere alle vette del lirismo narrativo e
Fu simbolo degli Invalidi per cause militari – La sua parola sempre viva -
 
Quando la nera Signora si avvicina tanto da ghermire il flebile corpo del dio in forma d’uomo, naturale è che egli resista: battaglia estrema, ma ove la si vinca, rimane per sempre il segno. Abilità suprema dell’anima è trasfondere la cicatrice, il marchio perenne della Tenebra, in Luce infinita a cui possano abbeverarsi i miseri, gli altri fratelli colpiti dal dolore. Potrebbe essere condensata così la vita apostolare di Carlo Delcroix, militare eroico, grande italiano, medaglia d’argento al Valor Militare, figura oggidì –in tempi di oblìo di fulgidi esempi di immemore patriottismo- dimenticata dai molti, e però ricordata da quanti credono ancora nella virtù sublime del sacrificio che si rende santo, nell’esempio che rimane a governare i sopravvissuti. In tempi ove taluni, tra mille difficoltà, si ingegnano a celebrare il cento cinquantesimo della Unità italiana, mentre altri la minano artatamente, a noi pare assolutamente necessario ricordare questo grande figlio della nostra Patria, che visse sino a non molti anni fa, martoriato sì nel corpo ma lucidissimo nell’anima, trasparente megafono della vita come era anche ferita vivente della violenza che gli ghermì, senza tuttavolta fiaccarlo, le carni.
Come spiegare a’ giovani del XXI secolo chi fu, chi è ancora Carlo Delcroix? Si risponderebbe subito, senza retorica ma con convinzione assoluta: un eroe. Un eroe vero, non costrùtto nel mito, non incasellato in una bolgia di ipocrisie, non immerso in un oceano di menzogne: un eroe autentico, un apostolo del Dolore, questo "dio senza altari", come egli scrisse, che diede forza e vividità a coloro che come lui furono duramente colpiti dalla guerra. Poiché se vi fu conflitto che chiuse il Risorgimento e cementò per sempre quella Unità d’Italia che in queste settimane si celebra, a volte senza memoria, questo è stato il primo, ovvero la cosiddetta "grande Guerra". In quella pugna micidiale e fervida di sangue e di gloria, decine di migliaja d’Italiani, dal più profondo Sud alle lande nordiche, unironsi al Comando supremo del Re –che allora davvero incarnava la forza, il faro della Patria: quel Re soldato che fu tra loro, in trincea, al convegno di Peschiera difese la Nazione dall’arretramento quasi voluto anche dagli Alleati; quel Vittorio Emanuele III che anni dopo garantiva ancora, còlla sua persona piccola ma d’acciajo, la continuità dello Stato, come anche il Presidente emerito Ciampi ha pubblicamente riconosciuto nel 2003- per compire il destino inevitabile. Pugna sentita, come non lo fu la seconda guerra; pugna olocausta, ove molti si gettarono in ardente estasi.
Tra i tantissimi, il tenente del 3° Bersaglieri Carlo Delcroix di Firenze, ove era nato nell’agosto del 1896, papà belga, mamma italiana: coll’ardore dei vent’anni aveva svolto coraggioso servizio nelle Alpi, nella Marmolada, conquistato il Col di Lana. E fu proprio in una sventurata esercitazione, per salvare delle vite di soldati, che si svolse l’incidente che lo mutilò alle mani e lo privò della vista. Così il racconto del collega tenente Minghetti: "Delcroix era sulla neve, in una pozza di sangue. Aveva perduto le mani e gli occhi ed appariva ferito in molte altre parti del corpo… Gli occhi afflosciati e senza vita erano imbevuti di sangue nero, il viso e le labbra gonfie erano come bruciati dalla vampa dell’ esplosione. Centinaia di schegge gli si erano conficcate in tutto il corpo, specialmente nell’ addome e nel torace, con ferite profonde… I moncherini delle braccia mostravano un impasto sanguinolento di muscoli, tendini, nervi e ossa violentemente spezzate." A dispetto delle enormi perdite di sangue, la giovinezza prorompente gli impose di vivere, ed egli visse. Era un appassionato degli studi,  Letteratura e Giurisprudenza: ricevette poi la laurea honoris causa. Mùtilo e cieco, non lo era nell'oratoria, di cui divenne maestro con insperata abilità: pronunziava comizi infuocati ai militari ed ai civili, divenendo in pochi anni il simbolo dei Mutilati d’Italia, della cui Associazione Nazionale fu il Presidente. Anche fondò e presiedé l’Unione Italiana Ciechi. Ebbe una retorica brillante, e non si sottrasse agli onori che il Fascismo gli tributò: del resto, era proprio il regime di Benito Mussolini che aveva dato ricetto e riscatto ai reduci, agli invalidi, ai mutilati della guerra, inquadrandoli non solamente sotto il profilo lavorativo ed amministrativo, nella nuova Nazione plasmata dallo Stato corporativo: ma ne aveva fatto quasi una bandiera, una mistica possente delle rivendicazioni nazionali. Carlo Delcroix nondimeno ebbe una assaj decisa e marcata propria personalità per soggiacere compiutamente all’autoritarismo fascista. La sua figura del resto fu sempre al di sopra di ogni sospetto di partigianeria, unanimemente riconosciuta quale unificatrice e simbolica dei mutilati combattenti eroi autentici della Patria. Pertanto rimaneva Presidente dei Mutilati anche nel secondo dopoguerra, e nel 1953 diveniva Deputato al Parlamento per il Partito Nazionale Monarchico. Era un convinto assertore della figura sacrale della Monarchia sabauda quale collante necessario della costruzione della Patria, e tale rimase, nei discorsi che per tutti gli anni Sessanta tènne nelle piazze della Nazione, per il PNM e poi il PDIUM, anche detto "Stella e Corona". Sposato e padre di figliolanza, Carlo Delcroix si spegneva ottantenne a Firenze nell’ottobre del 1977.
A noi rimane indelebile la sua parola di letterato: perché la vena poetica del Delcroix fu fervida e feconda. Chi ancor oggi, non più ristampati ma presenti nei negozi di libri vecchi, si imbatte ne "I miei Canti", in "Un uomo ed un popolo" (biografia di Mussolini commovente, alcune pagine della quale divennero antologiche: "Io non ho mai visto il Duce, ma dalla sua voce…") e "Quando c’era il Re", per citare tre fra i suoi molti libri, scopre una umanità immensa tra le piaghe dilacerate di un uomo felice anche nella sua sofferenza, e profondamente cristiano. Il libro che più disvela l’animo del letterato Delcroix è per noi "Sette Santi senza candele", del 1925, pubblicato, come quasi tutti, dal Vallecchi di Firenze: in esso la vena narrativa in parte di intonazione dannunziana –ove più tardi si scoprono influssi del Papini- si scioglie in un lirismo prosastico infinito, quasi sperdentesi tra le pagine ma coll’immancabile filo rosso della convinzione di essere l’araldo, la voce immarcescibile di coloro che non hanno voce, i "santi senza candele" appunto, i mutilati che tornarono alle loro case ed hanno, dopo aver versato il sangue per la Patria, diritto a quei riconoscimenti che non si spengono dopo i consueti piagnistei dell’immediato. "Chi nel ferro della catena sa martellare armi e corone o nella pietra del carcere può scolpire immagini e are, chi sa trarre nutrimento dalle sue ferite e ispirazione dalla sua pena, non sarà mai battuto, mai vinto. E io non sono un cieco perché credo e cammino; non sono una vittima perché lotto ed amo; non sono un mendico perché pòsso e dono; io sono un uomo da invidiare o da compiangere, come tutti gli uomini, con una vittoria di più, con un’arma di meno…". Egli si accorge che il monumento delle sofferenze umane, il Dolore, ha gli altari deserti: si fa quindi di questo nume sacerdote: "L’uomo eresse roghi e levò are a tutte le divinità ma non levò mai un tempio al dolore: questo dio sconosciuto visitò genti, attraversò le età e non ebbe dimora né trovò credenti ma la sua vendetta e la sua vittoria sono nella stessa incomprensione di quanti deprecando lo chiamano e rinnegando lo confessano non accorti di esserne invasi fino al delirio e posseduti fino allo spavento. Nessuno vi crede e tutti lo temono, nessuno lo accetta e tutti lo sentono che mai dio ebbe più testimoni e meno credenti". Adesso che si tenta pure di nascondere i testimoni contemporanei del dolore, esaltando quasi all’inverosimile il piacere pur di mascherare il resto, la voce di Carlo Delcroix appare quasi necessaria, forse più del tempo suo. Perché quando "l’umanità sarà sempre triste ma meno vile" avrà accettato, come nel dettato cristiano, il sacrificio quale "non più fato ma provvidenza: il dolore riconosciuto nume scopre il segreto della sua catena, annunzia i doni delle sue pene e il rimpianto diventa speranza e la necessità amore".
La poesia di Delcroix è infine un immoto volo, sulla scia dei grandi italici, verso la sublime ala della purezza: "Io non sono più quello che serravi \ al petto nell’angoscia del saluto; \ io sono un altro, un figlio sconosciuto, \ forse più tuo di quello che aspettavi… nulla è mutato presso il focolare, \ tu sei rimasta in me come quel giorno \ e pur non trovo né mi so trovare; \ dammi la mano e fammi andare intorno, \ non sono ancora stanco di cercare" (dedicata alla madre, L’altro figlio, da I miei Canti). Tempi di foschìe angosciose, di eclissi anche lunghissime, codesti: nondimeno, quel "sangue che è porpora di sole", in gratitudine all’anima del Delcroix, è necessario per continuare a sperare, per iniziare ogni giorno la rinnovata aspersione della vita.


Barone di Sealand (Francesco Giordano)


Pubblicato su Sicilia Sera n° 331 del 1 agosto 2010


 

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